Nel passo proposto dalla commissione, tratto dalle Lezioni di filosofia 1933-1934, Weil scrive che: “Nella conoscenza in generale, le apparenze sono date dalla sensibilità e occorre trovare ciò che sta dietro con il ragionamento. Nel bello si coglie immediatamente ciò che sta dietro le apparenze […] l’arte è un’identità nella varietà” e quest’ultima “ha il valore di un’armonia tra spirito e natura” e “il bello testimonia che l’ideale può passare nella realtà”. Ispirato dalle parole della Weil, nel suo saggio, evocativamente intitolato Meraviglia e fermento, Riccardo prende il lettore per mano, accompagnandolo, passo dopo passo, in una riflessione sul senso dell’arte, e quindi sul senso dell’umano, impegnativa ma piacevole, rigorosa ma poetica, in un perfetto equilibrio di logos e pathos. Convoca i grandi della Storia della Filosofia e della Letteratura – Dino Campana, in overture, scelto come “corrispettivo analogico-allegorico” della tesi di Weil, e poi G. Ungaretti, Agostino, Platone, Aristotele, F. Schelling, H.G. Gadamer, Carlo Michelstaedter … – e lo fa non per sfoggio di cultura o con piglio da pedante erudito. I versi che trascrive a memoria, i dipinti che descrive, gli aneddoti che racconta, le citazioni che fa servono a mettere in scena la sua argomentazione che, con una tecnica a tratti cinematografica, dipana pagina dopo pagina. Si, perché i concetti, Riccardo, li fa vedere, udire, toccare, odorare, gustare. Una scrittura immersiva la sua, che permette a chi legge di fare un’esperienza totale che coinvolge tutte le umane facoltà. In questo testo poi, attingendo dal suo bagaglio scientifico – sarà forse un omaggio al fratello matematico della Weil, André? – si supera proponendo addirittura l’incontro di due cubiche “per fornire una sorta di interpretazione simbolica del nodo focale della tesi” della Weil, che è anche la sua, ossia che “il bello testimonia che l’ideale può passare nella realtà”. Anche qui, come nel testo redatto per le regionali, Riccardo torna ad affrontare, sotto un’altra angolatura, il rapporto Arte/Intelligenza artificiale ponendo la domanda cruciale: “In una dimensione in cui l’individuo non è più creatore primario dell’opera, ma anche una realtà ‘artificiale’ è capace di farsi ‘produttrice’ di immagini, di parole, di suggestioni, come è possibile garantire la sopravvivenza dell’arte stessa?”. Riccardo non si limita a porre la questione della crisi di identità dell’arte. Arrischia la risposta, il nostro audace teoreta: “Noi non riteniamo che la produzione dell’intelligenza artificiale non possa essere equiparata ai prodotti dell’arte umana. Pensiamo però che nessun computer sarà mai capace di ‘impazzire’ al servizio della sua arte: ciò che distingue l’identico nell’identico dall’identico nel molteplice è proprio il tema del ‘delirante fermento’. In questo senso, la salvezza dell’arte umana sta proprio nel fatto che l’umanità si trova ad un livello di ‘perfezione’ inferiore rispetto a quello delle Intelligenze Artificiali. Una imperfezione che dilaga il senso di un possibile, di un molteplice, nel quale ricercare ancora la solidità salvifica di una più profonda unità”. Un colpo di genio. Il difetto è lo scudo. La salvezza dell’arte sta nell’imperfezione dell’intelligenza umana rispetto a quella artificiale. Il minus è ilprius. A leggerlo non si può non provare gratitudine per questo giovane intellettuale che anche qui – analogamente a quanto scrive nel saggio prodotto per la fase regionale, sulla scorta di M. Heidegger e S. Corazzini – fa dell’imperfezione dell’umano la cifra della sua irriducibilità in un tempo di macchine non solo sempre più performanti ma perfino produttrici di opere d’arte; macchine che non si accontentano di superare l’uomo nel pensiero calcolante ma vorrebbero defraudarlo pure di quello poetante. Ecco la speranza che Riccardo ri-accende: l’intelligenza artificiale realizza prodotti artistici ma non può creare l’opera d’arte intesa come luogo dell’incontro “tra la ‘limpida meraviglia’ dell’assoluto e il ‘delirante fermento’ dell’umano che lo scopre e ne fa esperienza”. L’IA non ha la tempra del poeta che rischia tutto, financo il “martirio”, “sull’altare dell’infinito”. Dino Campana – che Riccardo ri-concova in chiusura per chiudere il cerchio -sprofondato nella follia, chiuso “tra le quattro mura di una cella di un ospedale psichiatrico”, è e sarà sempre superiore a Chat GPT o a qualsiasi altra IA che produce opere d’arte ma non corre il rischio di rinunciare alla sua vita “per illuminarci le porte della notte sull’infinito, dell’ideale sul reale”. La macchina – scrive Riccardo – “può solo produrre ‘l’identico con l’identico’, ovvero intrecciare i dati che già possiede per creare con essi un prodotto che non eleva, ma si pone in una dimensione di parallelismo con la materia attraverso la quale è stato creato” e soprattutto nulla sa “dell’esperienza estetica come l’avventura profonda di un incontro: tra spirito e natura, come scrive la Weil, ma anche tra follia e vita, tra desiderio e prigionia”. Invitando alla lettura del testo qui solo accennato, come sempre la chiusa di chi scrive – e non potrebbe essere altrimenti – è: grazie Riccardo.
Grazie per questi tre anni di pensieri e parole sublimi in questa epoca di “passioni tristi”.
Grazie per averci mostrato che fare cultura significa “pensare per attraversamenti”.
Grazie per averci ricordato, in questo tempo di macchine meravigliose, che l’Arte ci ha reso umani e continua a rendere unica e irripetibile la nostra fragile umanità.
Grazie, infine, per aver reso onore al nostro Liceo.
Grazie, semplicemente grazie, Riccardo.
Di Lara Bevilacqua
Personale scolastico